Massimo Zavoli Massimo Zavoli
"La mano è la finestra della mente"
(I. Kant)

Critica d'Arte

Marco Grilli

Domenico Cialfi

Francesco Pullia

Giammarco Puntelli

Daniele Taddei

Paolo Cicchini

 

Marco Grilli

L'operato di Massimo Zavoli non necessiterebbe di ulteriori parole in quanto la sua arte riesce pienamente ad esprimersi e a trasmettere, a chi la osserva attentamente, un mix di emozioni uniche nel loro genere.
Analizzare il suo portfolio ci permette liberamente di spaziare nella maestria della creazione artistica: sculture, cornici intagliate, pitture, decorazioni murali, creazioni lignee finanche incisioni all'acquaforte e all'acquatinta, che dal 2009 vengono create con il torchio del suo maestro e mentore Aurelio De Felice, sono solo alcuni aspetti della sua arte.
Qui la forza del suo segno deciso, preciso e netto sulla lastra, si traduce in leggerezza e morbidezza sulla carta: quella che potrebbe sembrare una tecnica fredda e sterile, dura e poco espressiva in realtà si trasforma, nelle mani di chi può essere definito (come Zavoli) un maestro dell'incisione contemporanea, in una vera e propria opera d'arte dalle mille sfumature e sfaccettature.
Zavoli sa, attraverso la sua produzione artistica, interpretare il mondo di oggi, quello che definiamo la contemporaneità, riproponendo con forza quegli antichi valori e principi spesso, però, rivisitati con gli occhi dell'artista moderno.
In fin dei conti, come già lo stesso Kant affermava, "la mano è la finestra della mente" e solo l'artista riesce a tramutare in visibile l'invisibile, in tangibile il mondo intangibile delle idee, del pensiero e dell'immaginazione.
Massimo Zavoli è quindi l'artista sapiente che non crea nulla a caso ma sapientemente accosta la mano al supporto ed inizia a tracciare linee e contorni, seguendo la mente che lo guida attraverso l'ausilio del cuore, unico e vero motore di ogni creazione delle "umane genti".

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Domenico Cialfi

Le incisioni di Massimo Zavoli, “come destare la forma nella materia”

L’arte incisoria è, come ogni altra forma d’arte, il punto d’incontro tra le varie materie chiamate a concorrervi e la mano dell’artista che le sottomette alla propria personalità.
La lastra di zinco, la qualità degli inchiostri, l’equilibrio nell’acidificazione della soluzione, la bontà delle carte, l’esattezza dei rapporti cromatici sono a priori “afone” come gli utensili (matita, stilo, raschietto, rullo, tampone, e così via) a disposizione dell’artista.
La profondità spaziale di un’incisione, il segno riempito di vellutato inchiostro, la luce che essa include e rimanda, la vitale armonia della composizione sono il risultato dell’accordo cui vengono sollecitati sia gli strumenti sia le materie da quello che possiamo chiamare il “tocco” dell’artista: l’attimo in cui l’artista, tramite l’utensile, “desta la forma nella materia”.
Naturalmente occorre che l’artista “senta” con totale partecipazione i vari strumenti dell’orchestra dell’arte incisoria; che sappia sollevarli, smorzarli e fonderli in vista del traguardo che egli ha progettato… E Massimo Zavoli è in cammino, con un surplus di dedizione, su questa strada e lo sottolinea anche con la frase: “non sono stato io a scegliere la pressa (che era stata del grande artista De Felice), ma è il torchio ad aver invaso la mia vita”.
E toccanti sono, poi, le vicende legate a ogni soggetto prescelto per l’incisione… ogni incisione un nome, una storia, un abile gioco vitale tra tentativi, attese dei risultati e risultati attesi.
Una cosa mi preme, in ultimo, sottolineare: le forme che vivono nello spazio del segno incisorio costituiscono un mondo autonomo e non sono il riflesso minore di un’altra e più soggiogante attività artistica, un’autonomia che diventa visibile e parlante quando appaiono evidenti nell’incisione: la diretta manualità dell’artista, l’immediatezza del suo tocco, la metamorfosi degli “strumenti” in un’esplicita  spiritualità del segno e delle forme, in una nozione attiva e viva della tecnica.
L’incisione, questo è fondamentale, non va mai scelta come ancella o parente povera della pittura (e Massimo sembra averlo ben capito): essa, infatti, parla con tutt’altro, non secondario né immodesto linguaggio.
L’artista (ma anche il collezionista educato) che abbia affinato la propria sensibilità facilmente distingue ciò che è proprio da ciò che è improprio alla incisione. Riconosce lo stato e la qualità della carta, la freschezza e l’accuratezza dell’impressione, il timbro e il tocco dell’artista, la modulazione dei chiaroscuri dell’acqua tinta, l’eleganza del segno e l’immediatezza del risultato.
Impara in una parola a distinguere l’afonia dal canto, l’improvvisazione dall’ispirazione.

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Francesco Pullia

Nelle grazie di Arturo

Quando suoni alla porta di Massimo Zavoli ti accoglie Arturo, guardiano della soglia di tutto rispetto. Sdraiato sullo zerbino, non esita un istante ad esternare, con tipica arte felina, la propria simpatia. Prima si mette supino, con le zampette distese, poi, dopo una serie di giravolte, ti si struscia sui pantaloni con il manto cinerino, invitandoti senza mezzi termini, con la coda ben dritta, ad entrare. Anticipando, da perfetto anfitrione, l’ospite, ti indica le scale che conducono ad un ampio salone e al laboratorio in cui, grazie alla passione dell’artista, ha ripreso vita il torchio che appartenne ad Aurelio De Felice (1915 – 1996).
Non un semplice strumento per la stampa ma un vero e proprio alambicco utilizzato per più di quarant’anni da De Felice per materializzare centotrenta straordinarie acqueforti e sperimentare, come ha scritto Italo Faldi, nuove tecniche: “fondi graffiati con fittissimi reticolati di linee di impercettibile spessore, ampie fasce bianche di contorno che circoscrivono le forme e ne individuano i profili con effetto di negativo fotografico, che pervengono a risultati di non comune intensità espressiva”.
Dopo la morte di Aurelio, il torchio è rimasto a lungo inerte, solitario custode, nella penombra di una disabitata mansarda, di sogni, visioni, memorie, finché Pericle (detto Dante), nipote dello scultore di Torre Orsina, non ha deciso di donarlo a Zavoli. E ha fatto bene, molto bene. Non sarebbe potuto finire in mani migliori. L’artista gli presta, infatti, le stesse attenzioni, oseremmo dire le stesse premure, che riserverebbe ad un figlio. Quando lo mostra, spiegandone le funzioni, non riesce giustamente a trattenere un misto di orgoglio, commozione e timore per l’onore e la responsabilità di accudire ad un bene così prezioso.
Realizzato dalla ditta Paolini di Urbino, dotato di un nuovo feltro rotante, il torchio conosce adesso una nuova stagione. Massimo ne parla riconoscendo il proprio debito, umano e artistico, nei confronti di De Felice e di Roberto Bellucci, un altro autore per cui prova smisurata ammirazione.
È a Bellucci che, dice, si deve il perfezionamento della tecnica adoperata, con la scelta accurata di lastre di rame crudo, la meticolosa preparazione dell’inchiostro e la non meno puntigliosa stesura sulle trame incise.
Sono una ventina le acqueforti esposte in questa sede. Di vario formato, vanno dai 35 x 50 cm ai 12,5 x17,5 cm e sono state prodotte nell’arco degli ultimi tre anni: “L’amicizia” (con la metafora dell’edera che, per fedeltà, non si scosta dal muro neanche quando questo viene demolito), “Polifonia”, “Personaggio tribale”, il cui motivo è esteso in “Graffiti”, “Autunno” (tre noci), “ I miei cinquanta capricorni” (con chiaro riferimento al segno zodiacale), “Lucilla e Aurelio” e “La scuola di Parigi” (rielaborazioni di due opere di De Felice), “Povertà” (raffigurata come una donna senza volto con in braccio un bambino colto di spalle), “Ecce Homo” (da Guido Reni), “Dunarobba” (la colofonia immortala un tramonto tra secolari sequoie), “Ero un albero”, “Panta rei” (sorta di nodo senza fine scaturito da una serie di sequenze), “Aringa” (sanguigna), “Cinquant’anni di istituto d’arte” (ispirata al disegno della prima mostra didattica della scuola fondata a Terni nel 1961 da Aurelio De Felice), “Madonna Bellucci” (non poteva mancare l’omaggio ad un’opera di Roberto Bellucci), “Panorama umbro al tramonto”, “Non toccate questa quercia” (il titolo è di per sé esplicativo), “Stroboscopia”, “La porta di san Cristoforo”, “Parvenza d’ombre” (da un murale, purtroppo cancellato, di Alessio Patalocco), “Sentinella”.

Dulcis in fundo, sono messi in mostra due lavori di Maria Elisabetta Perazzini, discreta e amorevole consorte di Massimo, sua compagna di viaggio nel fantasticare dell’esistenza. È a lei che il sornione Arturo, miagolando, si rivolge per la meritata ricompensa in scodelle. Non tutti possiedono, infatti, la dote dell’ospitalità. E lui non solo ce l’ha ma, a suo modo, è un maestro.

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Giammarco Puntelli

Massimo Zavoli con capacità tecnica e abilità notevoli ci consegna alla vista e al cuore microcosmi di pregevole fattura. Da esperienze importanti si muove portando la sua originale impronta, soprattutto il modo di fare arte con rispetto del lavoro e ricerca del particolare. La narrazione dell’immagine è evidente, culturale e ricercata.

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Daniele Taddei

Massimo Zavoli si propone come artista di “segno” prediligendo l’incisione in tutte le sue diversificazioni. Il segno con cui incide la lastra di turno, sia rame o zinco, è deciso e maturo, un segno veloce ma preciso, impresso con quella sicurezza da rendere l’opera dinamica ed in continuo movimento.

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Paolo Cicchini

Nel 2009, Massimo Zavoli ha "accolto" nel proprio studio lo "storico" torchio di Aurelio De Felice, riattivandolo con mano sapiente e restituendogli la funzione di "supporto d'arte", capace di trasferire, dalla lastra di rame alla superficie della carta, il disegno tracciato dalla sensibilità dell'incisore. Di questo torchio Zavoli nel 2011 si è avvalso per stampare l'acquaforte celebrativa del cinquantenario della Chiesa di San Gabriele dell'Addolorata in Terni: una suggestiva visione d'interno, con la Croce "gigliata" di Eugenio Abruzzini sovrapposta al taglio verticale della "Lancia di luce" di Vittorio Cecchi, intitolata “Una generazione narra all’altra le Tue meraviglie”. Zavoli risolve la plasticità della materia nel linguaggio essenziale della geometria piana, accennando alla prospettiva attraverso il tratteggio nero del fondo; sottili linee di contorno danno concretezza a forme perse, altrimenti, nell'uniforme bianco del supporto di carta che le accoglie. Opera d'una semplicità potente, l'acquaforte di Zavoli, eleva il particolare alla condizione di universale traducendo la forma concreta nell'equivalente dell'idea, fornendo una sensazione di ritrovamento di verità intuite nella dimensione del cielo di Platone.

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